Documentazione
L’alfabetizzazione visuale nei processi documentativi attraverso photovoiceIl Letizia Luini, dottoranda in Educazione nella Società Contemporanea, Università degli studi di Milano-Bicocca, insegnante di scuola dell’infanzia e scuola primaria. Ilaria Mussini, pedagogista Comune di Correggio e professore a contratto Università di Verona. Il linguaggio fotografico, medium privilegiato nella strategia di ricerca e di documentazione di photovoice (Wang e Burris, 1997), promuove l’espressione personale di tutte e tutti, veicolando significati simbolici a partire dall’auto-produzione e dalla lettura di fotografie. Nel processo di photovoice una particolare attenzione viene dedicata non solo alla produzione delle immagini fotografiche ma anche alla discussione delle stesse, fase progettuale che prevede dapprima un’attenta selezione delle immagini preferite da ciascun bambino e, in secondo, luogo delle discussioni collettive in piccolo o grande gruppo: questi momenti di discussione, che partono da un prodotto concreto e significativo, favoriscono riflessioni e dialoghi spontanei tra bambine e bambini, che possono ancorare le loro osservazioni a un terreno comune, esercitando una forma di controllo sul processo che si configura guidato dal bambino (Driessnack e Furukawa, 2012). Ma affinché bambine e bambini possano imparare a discutere rispetto alle fotografie, al fine di esplicitare significati altrimenti latenti attraverso momenti di confronto con i pari, che permettono di aggiungere significati, interpretazioni e contenuti impliciti, appare fondamentale dedicare momenti al lavoro sull’alfabetizzazione visuale: con questa espressione si intende l’abilità di leggere, analizzare e interpretare le immagini, step rilevante nel processo documentativo con photovoice. Per lavorare sull’alfabetizzazione visuale è fondamentale dedicare del tempo all’osservazione e alla discussione di immagini e fotografie con i bambini: permettere loro di osservare l’immagine nella sua globalità o identificarne i dettagli, discutendo con gli altri rispetto al contesto, gli oggetti, i soggetti ritratti, le intenzioni del fotografo, il punto di vista da cui è stata scattata l’immagine ecc., rappresenta un esercizio capace di aiutare i bambini a osservare minuziosamente le immagini, per provare a comprendere le storie che stanno dietro. Per lavorare sull’alfabetizzazione visuale può dunque essere utile riflettere su fotografie di natura diversa, sia prodotte dai bambini che provenienti da contesti esterni; si possono utilizzare immagini apparentemente decontestualizzate, che potrebbero favorire la creazione di connessioni tra un’immagine e un’altra, oppure immagini significative per i bambini, connesse a esperienze pregresse. Per favorire lo scambio dialogico si possono porre domande-stimolo come per esempio: “Che cosa vedi?”, ovvero domande aperte che aprano la strada a una pluralità di ipotesi possibili, affinché tutte e tutti possano identificare le proprie risposte di senso, a partire dalla medesima immagine. Poter riflettere con i bambini rispetto alle infinite possibilità interpretative a cui si presta un’immagine appare interessante per far comprendere loro che ogni fotografia può essere letta e interpretata secondo modalità soggettive che dipendono da interessi personali, stati emotivi ed esperienze vissute. La letteratura scientifica propone l’utilizzo di specifiche tecniche dialogiche per favorire le discussioni di gruppo rispetto alle fotografie, tra cui per esempio le tecniche SHOWeD (Wang, 1999) e PHOTO (Hussey, 2006) che prevedono il lancio di domande o proposte-stimolo, tra cui: Le discussioni sulle fotografie possono quindi seguire il flusso conversazionale spontaneo dei bambini oppure possono essere sostenute dalla formulazione di domande-stimolo, riadattabili sulla base delle specificità dei contesti educativi. Alcune proposte pratiche appaiono efficaci per poter lavorare sin dalla prima infanzia sull’alfabetizzazione visuale dei bambini e delle bambine, affinché questi possano acquisire familiarità e consapevolezza nelle pratiche osservative e descrittive degli scatti fotografici; per esempio si può ipotizzare di lavorare dividendo i bambini in coppie, in cui uno dei due è bendato. Il bambino non bendato descrive l’immagine al proprio interlocutore, cercando di condividere con quanta più precisione possibile i dettagli della fotografia affinché il bambino bendato la possa immaginare e poi confrontare con la realtà. Oppure, è possibile selezionare un’immagine, condividerla con il resto del gruppo e invitare ciascun bambino ad aggiungere parole/frasi nuove per descrivere una stessa immagine. Oppure ancora, si può offrire un’immagine a ciascun partecipante, circondata da una cornice bianca in cui ognuno può decidere di scrivere e/o realizzare delle rappresentazioni grafiche per completare la scena della propria fotografia. Le possibilità di lettura e gli esercizi di dialogo basati sulle fotografie nei processi di documentazione con photovoice possono dunque generare delle discussioni attorno a sentimenti, esperienze e priorità avvertite da ciascuno, che prendono forma attraverso la condivisione di punti di vista diversi, favorendo la comprensione che le immagini veicolano dei significati e possono essere interpretate attraverso modalità di lettura imprevedibili, che si basano su idee personali, memorie e riferimenti soggettivi. BIBLIOGRAFIA Driessnack M., Furukawa R., Arts-based data collection techniques used in child research, in “Journal for Specialists in Pediatric Nursing”, vol. 17, 2012, pp. 3-9. Hussey J., Slivers of the journey. The use of photovoice and storytelling to examine female to male transsexuals’ experience of health care access, in “Journal of Homosexuality”, vol. 51, 2006, pp. 129-158. Wang C.C., Photovoice. A participatory action research strategy applied to women’s health, in “Journal of Women’s Health”, vol. 8, 1999, pp. 185-192. Wang C., Burris M., Photovoice. Concept, methodology, and use for participatory needs assessment, in “Health Education & Behavior”, vol. 24, n. 3, 1997, pp. 369-387.
Il giardino delle sensazioni
Alla scoperta della natura attraverso i sensi Paola Cecchi* e il personale educativo**Cooperativa sociale “L’Abbaino”, Firenze Gli educatori, insieme al coordinatore pedagogico, delle sezioni convenzionate con il Comune di Firenze, “Nana” e “Isola” del servizio educativo centro infanzia “La nave” hanno proposto ai bambini la programmazione dal titolo “Il giardino delle sensazioni” con un percorso basato sulla scoperta e sul “fare” dedicato a “grandi e piccoli”. Gli educatori hanno così dedicato un periodo di tempo all’osservazione dei bambini (d’età eterogenea) durante le routine del nido e le attività svolte nei primi mesi; manipolare, impastare e trasformare hanno assunto, così, nel tempo un valore significativo che si avvicinava anche alle esigenze e competenze dell’età stessa dei bambini. Nei primi mesi di vita, grazie agli stimoli provenienti dal mondo esterno, il bambino sviluppa e affina i suoi sensi e, con essi, affronta le prime esperienze. Nel corso del tempo i sensi concorrono alla definizione di ciò che si è sperimentato, incontrato e scoperto ed è grazie a questo processo di continua assimilazione che il bambino impara a pensare e fare. La mano diventa uno strumento fondamentale che serve al bambino per conoscere il mondo circostante. Questo strumento percettivo ci consente di entrare in relazione con materiali nuovi e ricchi di stimoli, permette l’acquisizione di nuove competenze e conoscenze e, se continuamente stimolato, favorisce un’apertura verso ciò che ci è sconosciuto. Sono proprio i sensi che permettono una maggiore percezione di chi siamo e di ciò che abbiamo intorno ed è grazie al loro utilizzo che il bambino esplora e sperimenta novità che gli permettono di valorizzarsi e arricchirsi. Perciò sostenendoli e incoraggiandoli in un’ottica d’apertura verso il mondo e, quindi, verso ciò che li circonda, i bambini divengono protagonisti attivi, stimolati ad agire con creatività e al piacere nel “fare”, consolidando quella “sete” di curiosità che spesso con il tempo va perduta. Questi presupposti, il gusto di esplorare e di sperimentare, sono parte fondamentale della nostra programmazione che vede bambini, genitori ed educatori concorrere alla condivisione di esperienze sempre diverse. Ogni esperienza ha bisogno di un punto di partenza: la storia Le pulcette in giardino1 di Beatrice Alemagna ha rappresentato il filo conduttore della programmazione educativa dello scorso anno. L’ambientazione della storia ci ha permesso di riflettere e condurre le attività proposte partendo da un approccio caratterizzato da momenti di scoperta e sperimentazione di materiali naturali, valorizzato da attività e strumenti sempre nuovi che permettono ai bambini di arricchire il loro piccolo mondo. Citando Loris Malaguzzi: “I bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività e il contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare”2. Il “fare”, quindi, è il tempo di un’esperienza attiva che vede come protagonisti non solo i bambini ma coinvolge anche le famiglie e gli educatori. Durante questo percorso le famiglie sono state coinvolte in più occasioni, mostrandosi partecipanti curiose e fonte di ricchezza e di stimolo per noi educatori. Un modo, questo, per riscoprire risorse ormai perdute ritrovando un tempo di qualità lontano dalla realtà frenetica. ObiettiviTra i nostri obiettivi principali c’è sempre quello di comunicare ai bambini il “piacere di fare esperienza”, incoraggiando all’ascolto delle proprie emozioni così come all’espressione delle stesse. Gli apprendimenti e la scoperta attiva vengono promossi attraverso il gioco, stimolando creatività e fantasia. Inoltre, lavoriamo per sviluppare e consolidare le abilità sensomotorie, le capacità esplorative e di ricerca dei bambini. ModalitàDa gennaio a giugno questo percorso ha evidenziato, da parte di entrambi i gruppi di lavoro, l’impegno e la propensione alla cooperazione e condivisione di esperienze. Nella scelta delle attività proposte si è deciso di dare spazio alla sperimentazione di terra, erba, erbe aromatiche, fiori e ortaggi, alcuni degli elementi naturali presenti nell’ambientazione del racconto di Beatrice Alemagna. La conoscenza che passa attraverso i sensi è fondamentale in questa fase di crescita, così ogni mese è stata proposta ai bambini una modalità nuova per conoscere elementi, personaggi e ambientazione caratteristici della storia partendo dalla lettura e drammatizzazione con l’uso del libro, delle schede e della scatola narrante, appositamente creata dagli educatori. Il campo esperienziale della lettura e della drammatizzazione è stato così trattato in maniera completa, permettendo ai bambini di riconoscere storia e personaggi, liberi di esprimere il loro vissuto emotivo e acquisire una sempre crescente capacità di dialogare, soprattutto per i più grandi, diventando a loro volta provetti narratori. I diversi stili narrativi e le diverse proposte hanno permesso inoltre a tutti i bambini, sebbene di fasce d’età eterogenee, di capire la storia e adattarla alle loro conoscenze. Senza mai abbandonare la parte narrativa, siamo partiti a febbraio con la conoscenza dei diversi materiali naturali, attraverso un percorso diverso ogni mese. Abbiamo cercato di rendere piacevoli e rilassanti gli spazi adibiti alle attività invitando ogni volta i bambini a esplorare e conoscere liberamente i materiali proposti senza limitarne la creatività. Laboratorio di manipolazione La realtà del nostro servizio offre la possibilità di fare molte esperienze e sappiamo quanto sia importante per un bambino “toccare con mano ciò che sta vivendo”. Quindi siamo partiti con attività di manipolazione che lo hanno visto impegnato nella sperimentazione di diversi materiali naturali con l’uso delle mani. A piccoli gruppi i bambini sono stati invitati a manipolare terra, erba ed erbe aromatiche (rosmarino, alloro, salvia e basilico), tutti elementi con consistenza, colore e profumi differenti. Successivamente è stata proposta un’attività dove anche il senso del gusto potesse entrare in gioco: “dal taglio delle verdure al minestrone” i bambini hanno conosciuto meglio ortaggi e tuberi come patata, zucchina, carota, finocchio e sedano ecc., definiti dagli stessi bambini “le verdure delle pulcette”. Sotto l’occhio attento degli educatori, alcuni bambini, soprattutto i più grandi, hanno utilizzato lo strumento in maniera non convenzionale facendo finta che fosse un “cacciavite”, quindi, ruotandolo all’interno dell’ortaggio. In generale l’esperienza è stata, però, caratterizzata dalla sfera gustativa; ogni bambino, infatti, è stato libero di toccare, annusare ma soprattutto assaggiare con i suoi tempi le verdure proposte. La seconda parte dell’esperienza, che prevedeva la consegna delle verdure alla cuoca
Accessibilità

I servizi di educazione e cura per la prima infanzia di qualità sostengono il successo scolastico di bambini e bambine e contribuiscono a ridurre le disuguaglianze sociali e il divario di competenze tra bambini provenienti da contesti socio-economici differenti. L’equità nelle condizioni di accesso è inoltre essenziale per garantire che i genitori, soprattutto le madri, dispongano della flessibilità necessaria per inserirsi, o re-inserirsi, nel mercato del lavoro. Ecco allora che il tema dell’accessibilità dei servizi per la prima infanzia assume una rilevanza cruciale: si tratta infatti di rendere “fruibile” con facilità a qualsiasi “possibile utente” tali realtà educative, rimuovendo le “barriere” che ostacolano la frequenza, creando le condizioni volte a favorirne la desiderabilità. In un certo senso, la desiderabilità è la condizione sine qua non dell’accessibilità: per prima cosa, infatti, le famiglie devono “voler” iscrivere al nido un bambino o una bambina, anche in assenza della pressione di un bisogno; occorre dunque eliminare non solo le barriere “visibili” (le difficoltà burocratiche legate all’iscrizione, l’elevato costo delle rette…) ma anche quelle “invisibili”, più connesse alla leggibilità della progettualità pedagogica ed educativa dei servizi, delle relazioni fra adulti e fra adulti e bambini. Per eliminarle, bisogna prima vederle, riconoscerle e dare loro un nome. Gli studi sull’accessibilità in ambito nazionale e internazionale offrono preziose indicazioni e direzioni di lavoro in tal senso. Tali studi ci dicono che le barriere che agiscono come deterrente non intenzionale possono essere riconducibili alla rigidità delle pratiche d’iscrizione e alla difficoltà di reperire informazioni, soprattutto da parte dei nuclei famigliari che vivono in situazioni di vulnerabilità e marginalità o che, per recente immigrazione, non conoscono ancora il sistema educativo italiano o anche solo la lingua scritta. Una prospettiva sistemica, tesa a integrare e mettere sempre più in rete i servizi educativi e quelli socio-sanitari potrebbe fungere da amplificatore delle possibilità offerte dal territorio e degli strumenti per accedervi e fruirne pienamente. Consultori, pediatria ma anche centri per bambini e genitori e spazi gioco potrebbero contribuire al progressivo avvicinamento delle famiglie ai servizi tradizionali. Anche i poli per l’infanzia 0-6 potrebbero svolgere un grande lavoro di supporto all’accesso al sistema pre-scolastico, offrendo un percorso educativo unitario già nei primi anni di vita. La sfida prioritaria è quella che si gioca sul piano dell’identità pedagogica ed educativa di nidi e scuole in una prospettiva inclusiva, orientata a superare approcci ancora troppo declinati in termini monoculturali. Se è vero che è necessario abbattere le barriere che rendono poco fruibile la frequenza, è anche necessario incidere sui fattori che rendono i servizi “poco desiderabili” e il non riconoscimento delle proprie istanze e rappresentazioni rispetto a ciò che è “bene” per i propri figli nelle progettualità pubbliche è una di queste. Infine, è necessario creare la condizioni affinché bambini e famiglie, una volta entrati nel servizio, vi rimangano. Rimettere al centro della progettualità i bambini e le loro famiglie, riconoscendo le pluralità del qui ed ora e superando la cristallizzazione dell’ideale e della tipizzazione, è l’unica possibilità per superare concretamente lo scarto tra ciò che le famiglie si attendono, sul piano materiale ma anche simbolico, entrando in un servizio per l’infanzia e ciò che percepiscono di raccogliere. Lavorare sull’accessibilità non può che portare a rivedere il proprio progetto educativo in chiave partecipativa, facendo spazio alle istanze portate dalle famiglie e dai bambini e rilanciandole nell’agito quotidiano. Servizi educativi e scuole possono essere capaci non solo di accogliere (dentro) ma anche di andare incontro e raggiungere (fuori) chi la soglia non l’ha ancora varcata. Lucia Balduzzi – Professoressa ordinaria di Didattica e Pedagogia speciale, Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Università degli Studi di Bologna
Creatività

La creatività è oggi riconosciuta come una qualità appartenente a tutti gli esseri umani, non solo ai “geni”. Come tale, non è questione di “tutto o niente”, ma è una risorsa di cui tutti dispongono e che può essere coltivata, promossa e sviluppata lungo tutte le età della vita. Indica in primo luogo una condizione di originalità e di libertà, e una capacità di esprimere se stessi in modo singolare e peculiare (Runco, 1999). Al tempo stesso, la creatività è una dimensione umana contrapposta a tutte le forme di omologazione sociale e culturale, al conformismo, per questo ha una posizione di rilievo nei programmi educativi perché l’educazione si propone di dare a ciascuno nel modo più completo tutti gli strumenti per diventare persona e per realizzare la propria umanità. Tuttavia, come tutti i concetti che ci affascinano, indica un fenomeno complesso e multiforme e non univocamente definito. Alcuni ingredienti delle manifestazioni creative sono però abbastanza accertati: l’autoespressione o espressione di sé; l’immaginazione e l’invenzione di “cose” nuove, non in assoluto, ma relativamente a ogni individuo, e l’adeguatezza o appropriatezza di ciò che si crea al contesto e al compito (Sternberg Lubart, 1999). I bambini stanno a pieno titolo dentro questo mastello della creatività quando costruiscono, inventano, immaginano, risolvono problemi o, anche semplicemente, quando sviluppano un gioco di finzione, ma creatività e spontaneità non vanno confuse. La creatività si dà quando le forme della spontaneità e della volontà espressiva dei bambini si connettono con l’ambiente circostante, con le sue regole, con i suoi compiti e i suoi vincoli; e cioè quando i bambini riescono a usare le risorse e i vincoli del contesto, e a piegarli e risignificarli in una direzione funzionale ai loro intenti e alla loro volontà espressiva. Quando usano gli oggetti immaginando che siano “altro” (la famosa scopa che diventa cavallo), quando usano i concetti appresi per acquisire e significare nuovi concetti (il “polso del piede” per indicare la caviglia), quando risolvono i problemi posti loro dal contesto o dal loro stesso gioco, utilizzando ciò che conoscono e convertendolo, attraverso l’immaginazione, in strumento utile, i bambini sono pienamente creativi. L’arte creativa, dei bambini come degli adulti, è riconducibile a una grande capacità combinatoria: si usano i mattoni delle proprie esperienze trasportandoli da un angolo all’altro, cioè da un contesto a un altro, inventando mondi nuovi e trasformando contemporaneamente i mattoni e gli angoli stessi. Per coltivare questa attività di trasformazione immaginativa, materiale o immateriale che sia, una delle condizioni migliori è la disponibilità di linguaggi e conoscenze a cui attingere: quanto più ricche sono le esperienze e conoscenze a cui ricorrere, tanto maggiori sono le possibilità di combinazioni fruttuose. In questo senso le acquisizioni e gli apprendimenti dei bambini, lungi dall’essere di per sé limitazioni o ostacoli, sono i mattoni della creatività. Ma uguale importanza hanno le attività e i compiti a cui i bambini si dedicano: non sono favorenti quelle “facili” o routinarie, ma quelle libere, aperte a multipli sviluppi, impegnative e sfidanti in giusta misura. Ultima, ma fondamentale, condizione per la promozione di comportamenti creativi è che il team degli educatori sostenga e incoraggi consapevolmente tutte le manifestazioni dell’impegno e dell’azione dei bambini, in particolare di quelle che combinano immaginazione e ragionamento. Roberta Cardarello – Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università di Modena e Reggio Emilia BIBLIOGRAFIA Antonietti A., La creatività si impara. Metodi e tecniche per lo sviluppo del pensiero divergente a scuola, Giunti, Firenze, 2011.Cardarello R., Il cappellino verde. Infanzia, creatività e scuola, Anicia, Roma, 2016.Gariboldi A., Cardarello R. (a cura di), Pensare la creatività. Ricerche nei contesti educativi prescolari, Edizioni Junior – Spaggiari Edizioni, Parma, 2012.Runco M.A., “Developmental trends in creative abilities and potentials”, in M.A. Runco, S.R. Pritzker, Encyclopedia of Creativity, Academic Press, San Diego, 1999, pp. 537-540.Sternberg R.J., T.I. Lubart, “The concept of creativity: Prospects and paradigms”, in R.J. Sternberg (a cura di), Handbook of creativity, Cambridge University Press, New York, 1999, pp. 3-15.
Cura
C’è un’esperienza che è chiara per ciascuno di noi: la vita ha bisogno di cura. La vita buona è un’azione di cura. L’essere umano è un essere fragile perché non ha in sé l’essere da se stesso. Noi umani nasciamo da altri e siamo prorogati nell’essere di momento in momento (Stein, 1999), sempre esposti al nulla che ci può nientificare (Heidegger, 1999). Veniamo al mondo senza una forma precisa e definita, con il compito di dare forma al nostro essere ma senza garanzia di risultato; ogni nostro progetto esistenziale, ogni nostra azione di cura (di sé, dell’altro o del mondo) non ha nulla di certo nei suoi esiti. L’essere umano è anche vulnerabile perché esposto ad altro e ad altri. Viviamo esposti al mondo, alle sue intemperie e minacce; e viviamo in uno spazio esperienziale condiviso con altri, co-costruito, nel quale ognuno è soggetto all’azione di altri: e l’altro può avere cura di noi, ma può ferirci. Ma se da una parte ci troviamo di fronte all’innegabile realtà della fragilità e della vulnerabilità, dall’altra esperiamo l’altro lato della condizione umana, altrettanto inconfutabile: che, pur in tutta la nostra fragilità, istante dopo istante siamo conservati nell’essere (Stein, 1999). È questo il paradosso dell’esistenza: siamo consapevoli della nostra condizione di precarietà eppure ci sentiamo conservati e facciamo spesso esperienza di cura. Dal ventre materno che ci accoglie quando veniamo a essere, alle braccia dell’ostetrica che ci accompagnano verso la luce, alle attenzioni dei familiari che ci introducono nella vita della comunità, alle parole e ai gesti delle insegnanti che ci preparano al mondo della cultura, ai sanitari che leniscono le nostre ferite del corpo e agli amici che accarezzano le ferite dell’anima, fino alla fine della vita, quando qualcuno si prenderà cura del nostro corpo mortale: la cura è sovrana e ci appare come il fenomeno più autenticamente umano. Una cura autentica è umana e umanizzante sia per chi la riceve che per chi la offre: abbiamo bisogno di cura, ma abbiamo altrettanto bisogno di prenderci cura di altro e di aver cura d’altri in quanto, come ben dice Heidegger, “ognuno è quello che fa e di cui si cura” (Heidegger, 1999, p. 152). Noi diventiamo ciò di cui abbiamo cura e i modi della cura danno forma al nostro essere: infatti, se abbiamo cura di certe relazioni, il nostro essere sarà costruito dalle cose che prendono forma in queste relazioni. Se abbiamo cura di certe idee, la nostra struttura di pensiero sarà modellata da questo lavoro; se ci prendiamo cura di certe cose, sarà l’esperienza di quelle cose e del modo di stare in relazione a esse a strutturare la nostra essenza. Se ci prendiamo cura di certe persone, quello che accade nello scambio relazionale con l’altro diverrà parte di noi. Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere. Aver cura è prendersi a cuore, preoccuparsi, avere premura, dedicarsi a qualcosa. L’educatore che si trova a che fare con un bambino sa bene cosa significhi questo prendersi a cuore. Sa che di fronte a sé ha un essere umano pieno di potenzialità, ma con il compito esistenziale di dar forma al proprio essere, di prendersi cura di sé cercando ciò che lo possa sostenere, ma senza restare schiavo della preoccupazione di procurarsi cose e beni. Un essere umano facilmente feribile, e che spesso porta con sé già tracce di sofferenze che bisogna avere il coraggio e la delicatezza di curare. L’intera opera educativa può essere letta come aver cura dell’altro perché l’altro impari ad aver cura di sé. E, in una visione etica che fonda la vita, aver cura dell’altro perché, anch’egli, impari ad aver cura di altri, e del mondo in cui viviamo. Luigina Mortari – Direttore del Dipartimento di Scienze umane, Università di Verona BIBLIOGRAFIA Heidegger M. (1919-20), I problemi fondamentali della fenomenologia, Il Melangolo, Genova, 1999.Mortari L., Filosofia della cura, Raffaello Cortina, Milano, 2015.Stein E. (1950), Essere finito e essere eterno, Città Nuova, Roma, 1999.