L’alfabetizzazione visuale nei processi documentativi attraverso photovoiceIl

Letizia Luini, dottoranda in Educazione nella Società Contemporanea, Università degli studi di Milano-Bicocca, insegnante di scuola dell’infanzia e scuola primaria.
Ilaria Mussini, pedagogista Comune di Correggio e professore a contratto Università di Verona.
Il linguaggio fotografico, medium privilegiato nella strategia di ricerca e di documentazione di photovoice (Wang e Burris, 1997), promuove l’espressione personale di tutte e tutti, veicolando significati simbolici a partire dall’auto-produzione e dalla lettura di fotografie. Nel processo di photovoice una particolare attenzione viene dedicata non solo alla produzione delle immagini fotografiche ma anche alla discussione delle stesse, fase progettuale che prevede dapprima un’attenta selezione delle immagini preferite da ciascun bambino e, in secondo, luogo delle discussioni collettive in piccolo o grande gruppo: questi momenti di discussione, che partono da un prodotto concreto e significativo, favoriscono riflessioni e dialoghi spontanei tra bambine e bambini, che possono ancorare le loro osservazioni a un terreno comune, esercitando una forma di controllo sul processo che si configura guidato dal bambino (Driessnack e Furukawa, 2012). Ma affinché bambine e bambini possano imparare a discutere rispetto alle fotografie, al fine di esplicitare significati altrimenti latenti attraverso momenti di confronto con i pari, che permettono di aggiungere significati, interpretazioni e contenuti impliciti, appare fondamentale dedicare momenti al lavoro sull’alfabetizzazione visuale: con questa espressione si intende l’abilità di leggere, analizzare e interpretare le immagini, step rilevante nel processo documentativo con photovoice.
Per lavorare sull’alfabetizzazione visuale è fondamentale dedicare del tempo all’osservazione e alla discussione di immagini e fotografie con i bambini: permettere loro di osservare l’immagine nella sua globalità o identificarne i dettagli, discutendo con gli altri rispetto al contesto, gli oggetti, i soggetti ritratti, le intenzioni del fotografo, il punto di vista da cui è stata scattata l’immagine ecc., rappresenta un esercizio capace di aiutare i bambini a osservare minuziosamente le immagini, per provare a comprendere le storie che stanno dietro. Per lavorare sull’alfabetizzazione visuale può dunque essere utile riflettere su fotografie di natura diversa, sia prodotte dai bambini che provenienti da contesti esterni; si possono utilizzare immagini apparentemente decontestualizzate, che potrebbero favorire la creazione di connessioni tra un’immagine e un’altra, oppure immagini significative per i bambini, connesse a esperienze pregresse.
Per favorire lo scambio dialogico si possono porre domande-stimolo come per esempio: “Che cosa vedi?”, ovvero domande aperte che aprano la strada a una pluralità di ipotesi possibili, affinché tutte e tutti possano identificare le proprie risposte di senso, a partire dalla medesima immagine. Poter riflettere con i bambini rispetto alle infinite possibilità interpretative a cui si presta un’immagine appare interessante per far comprendere loro che ogni fotografia può essere letta e interpretata secondo modalità soggettive che dipendono da interessi personali, stati emotivi ed esperienze vissute. La letteratura scientifica propone l’utilizzo di specifiche tecniche dialogiche per favorire le discussioni di gruppo rispetto alle fotografie, tra cui per esempio le tecniche SHOWeD (Wang, 1999) e PHOTO (Hussey, 2006) che prevedono il lancio di domande o proposte-stimolo, tra cui:
- descrivi la tua immagine;
- che cosa sta succedendo?
- perché hai ritratto questo soggetto?
Le discussioni sulle fotografie possono quindi seguire il flusso conversazionale spontaneo dei bambini oppure possono essere sostenute dalla formulazione di domande-stimolo, riadattabili sulla base delle specificità dei contesti educativi.
Alcune proposte pratiche appaiono efficaci per poter lavorare sin dalla prima infanzia sull’alfabetizzazione visuale dei bambini e delle bambine, affinché questi possano acquisire familiarità e consapevolezza nelle pratiche osservative e descrittive degli scatti fotografici; per esempio si può ipotizzare di lavorare dividendo i bambini in coppie, in cui uno dei due è bendato. Il bambino non bendato descrive l’immagine al proprio interlocutore, cercando di condividere con quanta più precisione possibile i dettagli della fotografia affinché il bambino bendato la possa immaginare e poi confrontare con la realtà. Oppure, è possibile selezionare un’immagine, condividerla con il resto del gruppo e invitare ciascun bambino ad aggiungere parole/frasi nuove per descrivere una stessa immagine. Oppure ancora, si può offrire un’immagine a ciascun partecipante, circondata da una cornice bianca in cui ognuno può decidere di scrivere e/o realizzare delle rappresentazioni grafiche per completare la scena della propria fotografia.
Le possibilità di lettura e gli esercizi di dialogo basati sulle fotografie nei processi di documentazione con photovoice possono dunque generare delle discussioni attorno a sentimenti, esperienze e priorità avvertite da ciascuno, che prendono forma attraverso la condivisione di punti di vista diversi, favorendo la comprensione che le immagini veicolano dei significati e possono essere interpretate attraverso modalità di lettura imprevedibili, che si basano su idee personali, memorie e riferimenti soggettivi.
BIBLIOGRAFIA
Driessnack M., Furukawa R., Arts-based data collection techniques used in child research, in “Journal for Specialists in Pediatric Nursing”, vol. 17, 2012, pp. 3-9.
Hussey J., Slivers of the journey. The use of photovoice and storytelling to examine female to male transsexuals’ experience of health care access, in “Journal of Homosexuality”, vol. 51, 2006, pp. 129-158.
Wang C.C., Photovoice. A participatory action research strategy applied to women’s health, in “Journal of Women’s Health”, vol. 8, 1999, pp. 185-192.
Wang C., Burris M., Photovoice. Concept, methodology, and use for participatory needs assessment, in “Health Education & Behavior”, vol. 24, n. 3, 1997, pp. 369-387.