
C’è un’esperienza che è chiara per ciascuno di noi: la vita ha bisogno di cura.
La vita buona è un’azione di cura. L’essere umano è un essere fragile perché non ha in sé l’essere da se stesso. Noi umani nasciamo da altri e siamo prorogati nell’essere di momento in momento (Stein, 1999), sempre esposti al nulla che ci può nientificare (Heidegger, 1999). Veniamo al mondo senza una forma precisa e definita, con il compito di dare forma al nostro essere ma senza garanzia di risultato; ogni nostro progetto esistenziale, ogni nostra azione di cura (di sé, dell’altro o del mondo) non ha nulla di certo nei suoi esiti.
L’essere umano è anche vulnerabile perché esposto ad altro e ad altri. Viviamo esposti al mondo, alle sue intemperie e minacce; e viviamo in uno spazio esperienziale condiviso con altri, co-costruito, nel quale ognuno è soggetto all’azione di altri: e l’altro può avere cura di noi, ma può ferirci.
Ma se da una parte ci troviamo di fronte all’innegabile realtà della fragilità e della vulnerabilità, dall’altra esperiamo l’altro lato della condizione umana, altrettanto inconfutabile: che, pur in tutta la nostra fragilità, istante dopo istante siamo conservati nell’essere (Stein, 1999). È questo il paradosso dell’esistenza: siamo consapevoli della nostra condizione di precarietà eppure ci sentiamo conservati e facciamo spesso esperienza di cura. Dal ventre materno che ci accoglie quando veniamo a essere, alle braccia dell’ostetrica che ci accompagnano verso la luce, alle attenzioni dei familiari che ci introducono nella vita della comunità, alle parole e ai gesti delle insegnanti che ci preparano al mondo della cultura, ai sanitari che leniscono le nostre ferite del corpo e agli amici che accarezzano le ferite dell’anima, fino alla fine della vita, quando qualcuno si prenderà cura del nostro corpo mortale: la cura è sovrana e ci appare come il fenomeno più autenticamente umano.
Una cura autentica è umana e umanizzante sia per chi la riceve che per chi la offre: abbiamo bisogno di cura, ma abbiamo altrettanto bisogno di prenderci cura di altro e di aver cura d’altri in quanto, come ben dice Heidegger, “ognuno è quello che fa e di cui si cura” (Heidegger, 1999, p. 152). Noi diventiamo ciò di cui abbiamo cura e i modi della cura danno forma al nostro essere: infatti, se abbiamo cura di certe relazioni, il nostro essere sarà costruito dalle cose che prendono forma in queste relazioni. Se abbiamo cura di certe idee, la nostra struttura di pensiero sarà modellata da questo lavoro; se ci prendiamo cura di certe cose, sarà l’esperienza di quelle cose e del modo di stare in relazione a esse a strutturare la nostra essenza. Se ci prendiamo cura di certe persone, quello che accade nello scambio relazionale con l’altro diverrà parte di noi. Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere.
Aver cura è prendersi a cuore, preoccuparsi, avere premura, dedicarsi a qualcosa.
L’educatore che si trova a che fare con un bambino sa bene cosa significhi questo prendersi a cuore. Sa che di fronte a sé ha un essere umano pieno di potenzialità, ma con il compito esistenziale di dar forma al proprio essere, di prendersi cura di sé cercando ciò che lo possa sostenere, ma senza restare schiavo della preoccupazione di procurarsi cose e beni. Un essere umano facilmente feribile, e che spesso porta con sé già tracce di sofferenze che bisogna avere il coraggio e la delicatezza di curare.
L’intera opera educativa può essere letta come aver cura dell’altro perché l’altro impari ad aver cura di sé. E, in una visione etica che fonda la vita, aver cura dell’altro perché, anch’egli, impari ad aver cura di altri, e del mondo in cui viviamo.
Luigina Mortari – Direttore del Dipartimento di Scienze umane, Università di Verona
BIBLIOGRAFIA
Heidegger M. (1919-20), I problemi fondamentali della fenomenologia, Il Melangolo, Genova, 1999.
Mortari L., Filosofia della cura, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
Stein E. (1950), Essere finito e essere eterno, Città Nuova, Roma, 1999.